Corrado Alvaro, il grande scrittore calabrese del Novecento dipinse con queste parole la nostra bella città nel 1932, giorno dell’inaugurazione di Piazza Vittoria:
“Mi accorsi, mentre andavo cercando a Brescia il famoso centro con le sue tre piazze di cui una nuovissima, e sono tre epoche, che il colore delle città lombarde è sui toni del bistro, del marrone, dell’ocra. Sarà la luce, sarà il colore degli edifici, ma è quello che nei quadri leonardeschi patinati dal tempo fa risaltare gli azzurri e i verdi, in cui i fiumi hanno colore di
mare invernale. In questo colore le vecchie città lombarde portavano gli affreschi delle facciate, o le tinte chiare di alcune case. A Brescia, invece, si ha l’impressione d’una nuova presenza, sembra di essere sotto il riflesso d’un lago o d’una cava di pietre. Alla fine si capisce che è l’uso grande delle pietre e dei marmi che dà questo colore alla città, la pietra vecchia e quella nuova, l’una patinata dal tempo e divenuta lattescente, l’altra bianchissima, invernale.
Brescia è il trionfo della pietra, non v’è strada che per quanto scialba, vecchia, scolorita, uniformata, sotto una tinta giallastra, non risenta di questa luce diffusa, fredda e quasi
fosforescente. A momenti par di scoprire una luce imminente, il riverbero di un’acqua alpina.
[…] Brescia, fabbricata nelle sue cose monumentali col botticino, a questa pietra deve il suo chiarore. Di qua ripensavo al Vittoriano di Roma, e mi parve di rivederlo sotto altro colore, questo ghiaccio nel cuore dell’Urbe lucente. C’era da conciliarsi con questa pietra che i romani guardano in piazza Venezia con la sola preoccupazione, ormai, che diventi scura.
Una città intera come Brescia, che dove più dove meno ha codesto colore, nel suo sito, nella sua luce
moderata, ha tutta una qualità luce che direi lunare, e si presenta così al viaggiatore che percorra le sue strade a piedi, cercando d’indovinare la piazza alla confluenza delle strade,
essendo la pianta di questa città a forma di cuore.
Credevo di arrivare subito nella Piazza Nuova [Piazza Vittoria], ed era la prima domenica dopo l’inaugurazione di essa, la sua prima domenica di vita. Mi trovai invece in Piazza della Loggia e qui proprio m’incantai per un pezzo. I monumenti del Rinascimento in Lombardia hanno lo
stesso tono che, a sorprendere una civiltà artistica fuori dei suoi limiti naturali, sono il segno di un impero spirituale che in Italia sostituì spesso l’impero politico e l’unità. La struttura della Loggia, poi, ha elementi che allargano l’idea che noi abbiamo del Rinascimento, e fanno balenare il pensiero che quest’arte esemplare porti in sé elementi non soltanto del nostro classicismo di tutte le arti, il principio stesso delle aspirazioni artistiche dell’uomo. Non mi stupirei di ritrovare quella cupola a scafo in un oriente lontano, quello che fa pensare, nella sua perfezione, a un altro rinascimento lontano da noi. La Loggia dice Venezia, e i diversi significati
raggiunti dall’arte in quel clima.
Si poteva stare delle ore in quest’illustre piazza, a guardare il ritmo di quest’edificio, o l’orologio del portico settentrionale come si muoveva, quasi trascinando nel suo moto lento e fatale non solo le ore, ma i segni dello zodiaco, le posizioni dei pianeti, le fasi della luna, i progressi del sole. E non soltanto questo curioso orologio, ma la conformazione della piazza, la sua logica la sua proporzione, l’equilibrio delle masse e dei colori, i commenti ordinati di ogni parte di essa,
la pietra e l’intonaco, il muro liscio e nudo e il portico lavorato; tutto grande e insieme familiare, con la sua gerarchia di masse e di toni, come se ogni elemento dipendesse dal comando d’un maestro, una piazza in cui l’armonia diventa cosa sonora, e la mente vi si attarda come nelle
descrizioni che il mare e il vento fanno di sé. Questo lusso tutto Italiano, in cui il nobile e il rustico, lo spontaneo e l’architettato si alternano con tanta sapienza, questo segno di vera distinzione, questo divertimento dell’intelligenza, dove si trovano più? […]
La città non ha una parte di protagonista nella storia comunale e signorile italiana, e neppure in quella romana; ma da tutte ha tratto il senso della civiltà in modo eminente, nell’orbita delle
civiltà maggiori e dominanti ha serbato una personalità sua, s’è fatto un carattere tutto per sé, una tradizione d’istinto, di discendenza, come un satellite luminoso di qualche grande astro. […]
E’ come ritrovarsi in un’antica casata di provincia, dove rimangono tradizioni di vita ornata, e di virtù; per essa i nomi di fedele, gregaria, sorella, hanno un senso alto, è la bellezza e la forza delle civiltà autoctone nate da un felice incontro di sangue.
 E’ la civiltà del benessere e del sentimento cittadino “